mercoledì 9 marzo 2011

Io sono pazzo...

Il primo ricordo che ho dei pazzi si perde nella mia infanzia. Negli anni Ottanta. E’ una stomachevole puzza di sigaretta, una “casa alloggio” che metteva un po’ di paura e gli schiamazzi di persone perlomeno strane. E quel ricordo lo conservo gelosamente. Perché quel mondo, il mondo dei pazzi, ormai lo abito da diversi anni e adesso a quella puzza, a quella paura e a quella stranezza, mi sono assuefatto. Nello stupore di quel ricordo della mia infanzia è nascosta la maniera di guardare il mondo che auspicherei di ritrovare, un giorno.
Adesso invece la pazzia mi pervade. Ce l’ho sui vestiti, nel fegato e negli occhi. Me ne accorgo quando qualcuno mi annusa, o mi chiede come faccio “a fare quel lavoro”, o si stupisce del fatto che io non mi stupisca della diversità. Io i pazzi non li distinguo più, perché sono uno di loro.
No, non è uno slogan.
“Siamo tutti un po’ malati”.
“La normalità non esiste”.
Questi sì che sono slogan. Invece, che io sia uno dei pazzi, è un dato di fatto. I “malati di mente” non sono tutti pazzi. I pazzi non sono tutti “malati di mente”. La malattia mentale tocca tutti in diversa misura, nella assurdità di certe consuetudini delle nostre vite. La pazzia, invece, è una specie di religione. Ha dei riti, delle ricorrenze, dei sacerdoti, anche se non ha nessun comandamento. E i pazzi si distinguono esattamente come si distinguono i cristiani, i musulmani, gli ebrei. I pazzi sì distinguono perché hanno le loro “chiese”, dove i loro “sacerdoti” somministrano loro la “salvezza” attraverso una sorta di “ostia”. E chiunque viva vicino ai pazzi, in qualche modo “impazzisce”, si unge. E riceve in eredità gli stessi sguardi straniti che vengono rivolti a loro, le stesse espressioni di pena. Perché se sei vicino ad un pazzo, un po’ strano devi esserlo pure tu. E se lavori con un pazzo, sei degno di compassione, perché è chiaro che non devi aver trovato di meglio.
E io, allora, sono un pazzo. Figlio di pazzi.
Una mattina, nel terzo millennio, nella metropolitana di Milano, nel Nord dell’Italia, nel cuore dell'Europa, sentii questo dialogo tra due signore.
Prima Signora: “…Ieri sono stata a casa della Sara… (espressione sgomenta)”
Seconda Signora: “Sara? Ma chi?”
P.S.: “Sara, la sorella di Armando…”
S.S.: “Ah sì, Sara… E beh?”
P.S.: “Eh, sai che la Sara ha un figlio… (lunga pausa)”
S.S.: “No, non sapevo avesse un figlio. Non me l’ha mai detto”
P.S.: “Sì, non ne parla mai, sai... (lunga pausa)"
S.S.: "(espressione preoccupata) Ma perché che ha il figlio della Sara?"
P.S.: "Eh... sai...?"
S.S.: "Cos'è gay?"
P.S.: "No, no... Ah, poi non lo so se è pure gay... Sai... E' un po'... (imbarazzata)"
S.S.: "E' drogato?"
P.S.: "No, è uno... (pausa) Un po' così"
S.S.: "Ah... Ho capito... Tipo che parla da solo, dice cose senza senso..."
P.S.: "Sì, Sì... Un po' così..."
Si erano capite. Il pudore, politically correct, nel dare un nome a chi è nella pazzia si è dissolto davanti a tre brevi parole. Un pazzo è semplicemente una persona un po' così.

1 commento:

  1. E' BELLISSIMA QUESTA POESIA. MI COLPISCE IL SENSO ANTIORARIO DELLE PRIME BATTUTE. RICHIAMA L'ALCHIMIA. ANDARE CONTRO IL SENSO ORARIO E' UN MODO PER RIMANERE GIOVANI, PER PRENDERE ENERGIA, PER RIGENERARSI.

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